giovedì 31 maggio 2007

Astratto/concreto. Hegel, Nietzsche, Marx (e la tradizione marxista)

In D. Losurdo, L'ipocondria dell'impolitico. La critica di Hegel ieri e oggi, Milella, Lecce 2001, pp. 35-73. Ed. orig. in «Diritto e cultura», anno VIII, n. 2 (luglio-dicembre 1999), pp. 119-149 (tr. ted. in «Topos. Internationale Beiträge zur dialektischen Philosophie», Heft 13/14, 1999, pp. 165- 196). Ora in I, 20.


1. Dal dibattito teologico-politico al dibattito epistemologico-politico

Fino al 1789, le rivoluzioni che segnano l’avvento del mondo moderno sono accompagnate e stimolate da un dibattito teologico-politico. Possiamo indicare in Hobbes, Spinoza e Locke i suoi tre grandi protagonisti. Al Leviatano, pubblicato nel 1651, mentre è ancora in corso la prima rivoluzione inglese, fa seguito il Tractatus theologicus-politicus, che nel 1670 esprime un giudizio positivo sulla restaurazione Stuart avvenuta dieci anni prima e, con lo sguardo rivolto anche al conflitto politico-religioso in atto nelle Province Unite, condanna la rivoluzione puritana sfociata nel Protettorato e rivelatasi incapace di produrre un ordinamento stabile e realmente alternativo[1]. Nel 1690 assistiamo alla pubblicazione da parte di Locke dei Due trattati sul governo, che sanciscono sul piano anche teorico la vittoria della seconda rivoluzione inglese. Sottolineata con forza da Spinoza già nel titolo della sua opera, la dimensione teologico-politica del dibattito in corso emerge con chiarezza anche dagli altri interventi. L’analisi relativa alla natura e alle competenze del potere politico s’intreccia strettamente con la polemica contro l’“odierna teologia” sulla quale ironizza Locke[2], con la discussione non solo sul governo divino del mondo, ma anche sull’attendibilità dei profeti, sulla lettura del testo sacro, sulla salvezza, sul rapporto tra norme religiose e ordinamento giuridico ecc.
Il processo di secolarizzazione non si è ancora sufficientemente sviluppato all’epoca della rivoluzione americana, che continua a fare esplicito riferimento al “Creatore” e alla legge “divina” oltre che “naturale” e che comunque, considerando come “di per se stesse evidenti” le “verità” cui si richiama, cerca di evitare il dibattito esplicitamente filosofico, epistemologico-politico, che invece diviene centrale con la rivoluzione francese. A partire da questo momento, il quadro cambia in modo sensibile. Pur tendenzialmente relegato in secondo piano, il dibattito teologico-politico è ancora ben presente, ma anche al suo interno si fa avvertire il processo di secolarizzazione. Sono gli anni in cui emerge un gruppo di categorie assai eloquenti: “protestantesimo politico”, “panteismo dello Stato”, “panteismo in politica”, “panteismo politico, sociale e religioso”, “ateismo della legge e dello Stato”, “ateismo giuridico”, “irreligiosità politica”: in ognuno di questi casi, il sostantivo viene radicalmente reinterpretato da un aggettivo, il quale chiarisce che oggetto del contendere è la configurazione dello Stato e della società piuttosto che l’ortodossia religiosa in quanto tale[3]. Ben più che l’eresia o l’ateismo, sono ora il protestantesimo politico ovvero il panteismo e ateismo politico a costituire il principale capo d’accusa a carico della rivoluzione. E cioè, nell'ambito del dibattito teologico-politico l'accento tende a spostarsi sul secondo aggettivo.
Fin qui c'è sostanziale continuità. Ma ecco fare irruzione un motivo nuovo. Secondo Burke, col loro ricorso a “principi astratti” (abstract), a “principi generali”, al “diritto vagamente speculativo”[4], con la loro “astratta” rivendicazione dell'uguaglianza giuridica, i rivoluzionari francesi violano “il naturale ordine delle cose”, l'“ordine sociale naturale”, anzi si macchiano della “più abominevole delle usurpazioni”, quella che si rende colpevole di calpestare le “prerogative della natura” ovvero il “metodo della natura”[5]. La tradizionale denuncia dell'eresia viene ora affiancata e tende anzi ad essere soppiantata dalla denuncia dell'“astrazione”.
Significativo è il fatto che sul terreno epistemologico-politico finisca col collocarsi anche un autore pur esplicitamente impegnato nella difesa dell’ortodossia religiosa. Persino nel saggio da lui dedicato alla riaffermazione dell’autorità del papa e della chiesa cattolica come rimedio unico e universale alla dilagante sovversione, Maistre formula in termini nuovi e secolarizzati il peccato originale dei rivoluzionari: essi si sono attenuti a “regole astratte” e a “principi astratti” piuttosto che all’“esperienza” e alla “storia intera, la quale costituisce la politica sperimentale”[6]. E al rispetto del “metodo della natura” e della “saggezza pratica” fa appello anche Burke[7], sempre in contrapposizione alle rovinose astrazioni che non cessano di devastare ormai l'intera Europa. La dicotomia eresia/ortodossia, che era stata al centro delle precedenti rivoluzioni, tende ad essere sostituita dalla dicotomia astrazione/concretezza, teoria/ esperienza ovvero dalla dicotomia che mette in stato d'accusa l'artificio in nome al tempo stesso della natura e della storia.
Ben si comprende questo passaggio. La legge naturale è anche quella divina -avevano sostenuto Jefferson e la Dichiarazione d'indipendenza americana, in polemica con Giorgio III; e questa è anche, sul versante opposto, l'opinione di Gentz e Haller, i quali condannano i rivoluzionari francesi in quanto colpevoli di calpestare il “divino metodo della natura” ovvero la “divina legge di natura”[8]. In quanto violazione dell'ordinamento voluto da Dio, gli artifici e le astrazioni rivoluzionarie continuano ad essere blasfeme e luciferine; resta il fatto che questo capo d'accusa tende ora ad essere formulato in termini epistemologico-politici. Particolarmente significativa è la requisitoria pronunciata da Maistre, il quale individua con chiarezza le debolezze e le ambiguità del giusnaturalismo cui si ispira la rivoluzione francese. Ben lungi dal costituire un dato naturale, risulta essere “une pure abstraction” il titolare dei diritti naturali, la figura dell’uomo in quanto tale, che è al centro delle diverse Costituzioni scaturite a partire dal 1789:
“Nel mondo non esiste l’uomo. Nella mia vita ho visto francesi, italiani, russi ecc.; so pure, grazie a Montesquieu, che si può essere persiani: ma, quanto all’uomo, dichiaro di non averlo mai incontrato in vita mia; se esiste, è a mia insaputa”[9].
Le conseguenze rovinose della rivoluzione sono già tutte implicite -insiste la pubblicistica controrivoluzionaria nel suo complesso- nello stravolgimento della realtà operato dalla teoria astratta. Questo dibattito e queste polemiche lasciano una traccia profonda nell’idealismo tedesco. Kant e Fichte si impegnano in un’appassionata rivendicazione delle ragioni della teoria astratta. E' questo il filo conduttore in primo luogo del saggio del 1793 sul “detto comune”: a voler ridurre la teoria a vuota esercitazione scolastica senza alcun rapporto con la realtà sono spesso essi stessi degli intellettuali, i quali dunque si avvolgono -fa notare Kant- in quella che oggi chiameremmo una contraddizione performativa[10].
Più radicale è l'approccio di Hegel, il quale intanto imprime un’accelerazione al processo di secolarizzazione del dibattito teologico-politico. Se non il termine letterale, è comunque presente in lui la categoria di “protestantesimo politico”, come emerge dalla dichiarazione secondo la quale i Francesi, protagonisti della rivoluzione di luglio e dell’edificazione di un regime costituzionale fondato sul “principio della libertà mondana, hanno di fatto cessato di appartenere alla religione cattolica”![11]. Per di più, spogliati della loro forma “rappresentativa” e “mitica”, che fa riferimento a presunti eventi della storia sacra, tutti i temi centrali del cristianesimo (creazione, caduta, incarnazione e redenzione) vengono reinterpretati dalla logica-metafisica hegeliana come momenti necessari ed eterni dello spirito e della dialettica, come momenti essenziali della speculazione capace di comprendere e stimolare il processo storico di realizzazione della libertà mondana[12].
Soprattutto, il dibattito teologico-politico cede il passo a quello epistemologico-politico. La “rivelazione immediata”, la “profezia” e l’“entusiasmo o ispirazione soprannaturale” criticati da Hobbes[13], la “conoscenza profetica” bersaglio della polemica di Spinoza[14], la sedicente “rivelazione” e lo “spirito fervido”, pronto ad abbandonare il terreno della ragione, sui quali ironizza Locke,[15] tutto ciò, dopo essersi presentato sotto le vesti del “tono di distinzione in filosofia” e della Schwärmerei (che pretende di parlare con la “voce di un oracolo”) denunciati da Kant[16], diviene il “sapere immediato” impietosamente analizzato e criticato da Hegel. Il rapporto con la tradizione teologico-politica alle spalle continua a riemergere, come risulta dalla polemica dell’Enciclopedia contro la pretesa di “esprimere profeticamente la verità” e di atteggiarsi a “eletti” (Sonntagskinder) cui “Dio comunicherebbe nel sonno la vera conoscenza e scienza”[17]. Ora, dopo aver assunto una configurazione generale, il “sapere immediato” viene confutato in termini in primo luogo epistemologico-politici: richiamarsi ad esso significa rendere impossibile la comunità del sapere e del concetto e, di conseguenza, rendere impossibile la comunità politica e la realizzazione della libertà mondana.
Al di là del riconoscimento (kantiano e fichtiano) dei meriti della teoria e della riaffermazione della sua ineludibilità, si tratta per Hegel di ridiscutere il significato delle categorie di astratto e concreto e il loro rapporto reciproco. Ecco allora progressivamente delinearsi un grandioso trattato epistemologico-politico, impegnato a chiarire la genesi, il significato, i problemi della rivoluzione francese e del mondo da essa scaturito, e impegnato altresì ad elaborare le categorie del discorso e dell'azione politica, le categorie che presiedono alla lettura e alla trasformazione della realtà politica[18].
Non c'è dubbio, su un punto Maistre ha ragione: è un'impresa vana rinviare alla natura per fondare la figura dell'uomo in quanto tale. Essa è una sconvolgente novità storica:
“Né Socrate né Platone né Aristotele hanno avuto la coscienza che l’uomo astratto, universale, sia libero. Ma per ciò occorre che l'uomo possa essere pensato come universale, e che si prescinda dalla particolarità secondo cui esso è cittadino di questo o quello Stato“[19].
Dunque, il concetto di uomo in quanto tale è un'astrazione o il risultato di un'astrazione (bisogna astrarre dalla “particolarità” nazionale, considerata intranscendibile dal teorico della Restaurazione, per il quale ad essere reali sono solo i francesi, gli italiani, i russi ecc.). Dal punto di vista di Hegel, l'elaborazione del concetto astratto, generale, di uomo è per un verso il risultato di un legittimo e necessario processo logico di astrazione: la Scienza della logica respinge con forza la tesi secondo cui le astrazioni scientifiche rappresenterebbero un impoverimento rispetto alle realtà immediate, di cui esse, al contrario, riescono a cogliere ed esprimere l'essenziale[20]. Al tempo stesso, la costruzione del concetto di “uomo astratto, universale” è anche un concreto, colossale processo storico che ha reso possibile -sottolinea il brano già citato della Filosofia della storia- l'abolizione della schiavitù:
“Perché non ci sia schiavitù è necessaria anzitutto [...] la nozione che l’ uomo come tale è libero. Ma per ciò occorre che l’uomo possa essere pensato come universale, e che si prescinda dalla particolarità secondo cui esso è cittadino di questo o quello Stato”.
Si tratta di un processo storico che, nonostante le battute d'arresto e le possibili regressioni, risulta irreversibile sul piano strategico. Un monarca che pretendesse di reintrodurre in Europa la schiavitù, sanzionando di nuovo la riduzione degli schiavi a strumento di lavoro e quindi distruggendo il concetto astratto e universale di uomo, andrebbe incontro allo scacco finale, per il fatto che l’assenza di schiavitù è ormai divenuta una “condizione naturale” (Natursein)[21]. Se il giusnaturalismo non può essere fondato rinviando alla natura propriamente detta, può ben essere fondato a partire dalla “seconda natura” e cioè dai risultati, irreversibili, della storia universale[22].
D'altro canto, proprio perché questo concetto è entrato a far parte della seconda natura, delle istituzioni e della vita concreta dell'uomo, non tener conto di tale risultato significa incorrere in una paurosa astrazione. A questo punto è intervenuto un mutamento radicale. Non solo “astratto” non ha un significato univocamente negativo, ma è diventato incerto e problematico il confine tra astratto e concreto. E' ora ineludibile la domanda: Chi pensa astrattamente? Al contrario di quello che ritengono i teorici della conservazione e della reazione, è proprio nella Prussia ancora al di qua della proclamazione dei diritti dell’uomo che domina l’astrazione: trattato come una “canaglia”, il soldato semplice può essere bastonato dal suo superiore e il servo dal suo padrone. Questo atteggiamento altezzoso e violento è una forma di pensiero “astratto” in quanto fissa l'uomo in un'unica “astratta determinazione” che è quella della ricchezza o del rango sociale. A tale comportamento, Hegel contrappone, con riferimento alla Francia scaturita dalla rivoluzione, i rapporti cordiali e persino amichevoli, in ultima analisi fondati sulla “concretezza” della pari dignità umana, che legano il domestico al suo signore. Di tale concretezza bisogna dar prova persino nella valutazione della figura di un assassino: il carattere orribile della sua azione non deve essere perso di vista; e, tuttavia in modo astratto argomenta e si comporta colui che non riesce a “vedere altro, nell’assassino, se non questa determinazione astratta per la quale è un assassino”, cancellando “in lui tutta la natura umana restante”[23].
Entrato ormai a far parte della seconda natura, il riconoscimento della comune dignità umana sta a significare concretezza, mentre è il suo misconoscimento che è indice di astrattezza, in senso univocamente negativo, in quanto risultato di un’astrazione che invano pretende di rimettere in discussione i risultati del processo storico e la seconda natura. Concretezza non è più sinonimo di immediatezza: ci può essere un'immediatezza “astratta”[24] e persino un'“astratta vitalità”[25]. E l'astrazione non è un processo meramente mentale. Essa sembra talvolta configurarsi come una realtà ontologica: si spiegano così la definizione del “tempo” come “l’astrarre in atto” (das seiende Abstrahieren)[26] e della morte come “l’astratta negazione della singolarità”[27]. Se anche queste espressioni hanno una valenza metaforica, resta comunque fermo che l'astratto e il concreto possono assumere uno spessore sociologico e storico, lo spessore della seconda natura. In ultima analisi, siamo in presenza di determinazioni storiche; e dunque a pensare astrattamente non è l'uomo colto bensì l'“incolto” (ungebildet)[28], ancora al di qua dei risultati conseguiti dal processo storico. Il sollevarsi all'astrazione è un momento essenziale del processo di formazione dell'individuo, della Bildung, e ora “appartiene alla cultura” (Bildung) saper concepire “l’io come persona universale”[29], saper far proprio e assimilare il concetto astratto di uomo.

2. Astrattezza, universalità e individualità

In quanto contrapposta all'infinita ricchezza della realtà e della vita, l'astrattezza denunciata dai critici della rivoluzione francese è sinonimo anche di uniformità e di calpestamento dell'individualità concreta. Le diverse dichiarazioni dei diritti del'uomo -osserva Adam Müller sulla scia di Burke- hanno attribuito la libertà ad un essere “spogliato [...] di tutta la sua particolarità, dunque a qualcosa di astratto, al concetto di “uomo””, non già al “singolo individuo umano” con le “sue caratteristiche particolari”[30]; misconoscendo la “particolarità” (Eigenheit) e la “peculiarità” (Eigentümlichkeit)[31], la categoria universale di uomo sfocia nell'annientamento dell'individualità.
Possiamo seguire le successive configurazioni di questo capo d’accusa nelle diverse tappe del ciclo rivoluzionario francese. Nell’analizzarlo, Tocqueville non si limita a criticare le “teorie generali e astratte in materia di governo”, la “politica astratta e letteraria”, la “teoria pura”[32]; fa un passo avanti. Preoccupato dall’innesto di correnti socialiste sul vecchio tronco giacobino, cerca di spiegarlo prendendo le mosse dal dibattito scolastico sugli universali:
“Tutto ciò che ai nostri giorni innalza l’idea di individuo è sano. Tutto ciò che conferisce un’esistenza separata alla specie (espèce) e ingrandisce la nozione di genere (genre) è pericoloso [...] La dottrina dei realisti introdotta nel mondo politico spinge a tutti gli abusi della democrazia”[33].
Dopo il fallimento della rivoluzione del ‘48, la categoria di nominalismo politico, indirettamente evocata da Tocqueville, viene esplicitamente enunciata da Heinrich Leo il quale spiega gli incessanti sconvolgimenti e l’emergere dello spettro del socialismo al di là del Reno col “realismo” proprio della “tendenza latino-celtica”, incline ad agire “coi concetti astratti come fossero realtà”; a questo “dispotismo dei concetti astratti” l’ex-discepolo e ora feroce avversario di Hegel contrappone il “nominalismo” proprio della “tendenza germanica”. Le origini teologiche di questa dicotomia sono evidenti, per il fatto che il realismo celtico-latino è al tempo stesso la “malattia della chiesa romana”[34]. Ma non è questo il punto essenziale. Il contrasto tra nemici e seguaci del radicalismo rivoluzionario si configura ora come il contrasto tra nominalismo e realismo, individualismo e universalismo, tra coloro che rispettano l’individuo nella sua concretezza e coloro che non esitano a sacrificarlo sull’altare di un’entità astratta. Dopo aver soppiantato quella che contrapponeva eresia e ortodossia, la dicotomia astratto/concreto finisce col configurarsi come la dicotomia realismo/nominalismo, e in questa sua configurazione, continua tuttora ad essere al centro del dibattito epistemologico-politico.
Attraverso modalità diverse, con un linguaggio più direttamente politico o più rarefattamente filosofico, autori tra loro così distanti come Müller, Tocqueville, Leo, Kierkegaard, Stirner contrappongono alla marea rivoluzionaria, “realista” e socialista il pathos dell'individuo, del singolo, dell'unico. Si tratta di un motivo ideologico già criticato da Hegel: “Quando io dico: una singola cosa, io la esprimo piuttosto come un che del tutto universale; giacché ogni cosa è una singola cosa”[35]. Non è possibile esprimere l’individualità senza far ricorso alla categoria di universalità. Nel condannare la “desolata astrazione livellatrice” che avanza nel mondo moderno, Kierkegaard contrappone il “singolo” al “”genere umano”” e alla categoria di uomo in quanto tale[36]. E ora torniamo a leggere la Fenomenologia dello spirito: “Se di qualcosa null’altro viene detto se non che si tratta di una cosa reale, di un oggetto esteriore, allora il qualcosa vien definito come la realtà più comune di tutte (Allerallgemeinste) e con ciò, di esso si enuncia l’eguaglianza con tutto, piuttosto che la sua differenza”[37].
La fuga dalle astrazioni mette capo alla “certezza sensibile”. Senonché, questa che appare “immediatamente come la conoscenza più ricca, come una conoscenza d’infinita ricchezza” si rivela in realtà come “la verità più astratta e più povera”[38]. Se volessero essere coerenti, sarebbero costretti al silenzio coloro che alla figura dell'uomo nella sua universalità e nella sua astrattezza contrappongono il singolo da cogliere mediante la certezza sensibile; allorché cercano di comunicare, essi vorrebbero esprimere un'esistenza assolutamente determinata, e in realtà fanno ricorso ad una categoria universale e astratta, anzi la più universale e la più astratta. Netta è la contraddizione tra la loro “opinione” e il loro linguaggio, ma ad essere veritiero è il linguaggio (che non riesce a fare a meno della categorie generali)[39].
Ovvero, per passare dal piano logico a quello storico-politico: se per individualismo si intende il riconoscimento di ogni individuo, indipendentemente dal censo, dal sesso o dalla razza, come soggetto titolare di diritti inalienabili, questo risultato non possiamo comprenderlo senza il pathos universalistico della rivoluzione francese e del movimento socialista, senza quelle “astrazioni” e quel realismo messi in stato d'accusa da Tocqueville, Leo ecc. (e, ai giorni nostri, da Popper).
Assai fragile si rivela la polemica anti-realistica. Essa è già presente in Maistre. Al quale però si può obiettare che, allo stesso modo in cui viene da lui dissolto il concetto di uomo, potrebbe essere dissolto il concetto di francese, o italiano, o russo, o persiano: se per la strada non si incontra l'uomo in quanto tale, non si incontra neppure il francese in quanto tale. Anche questo è un concetto generale che può essere ulteriormente dissezionato, facendo intervenire le differenze di sesso, di classe, di età ecc. La dissoluzione nominalistica dei concetti generali può procedere all'infinito, sino a sfociare nell’impossibilità della comunicazione messa in rilievo da Hegel.
Un equivoco di fondo si annida anche nella presa di posizione di Tocqueville. Il testo sopra citato prosegue inserendo la “dottrina dei realisti” fra “tutte le dottrine che permettono al corpo sociale di calpestare gli uomini e che fanno della nazione tutto e dei cittadini niente”[40]. E cioè, l’individuo concreto viene al tempo stesso contrapposto sia alla categoria di “genere” (o “specie”) sia a quella di “nazione” Ma queste due categorie non sono affatto equivalenti, anzi la prima costituisce il più efficace antidoto ai rischi di assolutizzazione della seconda. E, infatti, per contestare la visione olistica della nazione, lo stesso Tocqueville finisce col richiamarsi alla categoria di uomo. D’altro canto, proprio perché implica l’astrazione anche dall’appartenenza nazionale o etnica (per dirla col § 209 A dell’hegeliana Filosofia del diritto, “l’uomo ha così valore perché uomo, non in quanto ebreo, cattolico, protestante, tedesco, italiano ecc.”), la figura di individuo non può essere pensata senza la categoria di genere umano.
L’equivoco appena visto continua ancora ai giorni nostri. Vediamo infatti la diffusa professione di fede individualistica esprimersi in linguaggi internamente inconsistenti e tra loro incompatibili. Secondo Talmon, “se [...] l’empirismo è alleato della libertà, e lo spirito dottrinario è invece alleato del totalitarismo, il concetto di uomo come astrazione, indipendente dalle classi storiche [i diversi raggruppamenti] a cui appartiene, è probabile che divenga un potente mezzo di propagazione del totalitarismo”[41]. Non resta allora che condannare in blocco la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e la rivoluzione francese, per celebrare invece, sul versante opposto il suo grande antagonista e cioè Burke. Leggiamo ora Louis Dumont: “chi dice olismo dice in effetti predominio della società concreta sulla specie (espèce) umana”. Ma allora espressione di olismo è la celebrazione che Burke fa, in contrapposizione ai diritti dell’uomo in quanto tale, dei diritti, ereditariamente tramandati, di una comunità storicamente determinata come quella inglese. A questo punto, risulta insostenibile la contrapposizione stereotipa, cui anche Dumont indulge[42], tra individualismo anglosassone e olismo tedesco (e hegeliano).
Come emerge dai miei corsivi, siamo in presenza di un fatto paradossale. Corale è nella cultura contemporanea la condanna dell’olismo, che però viene definito in modo persino antitetico, in quanto sinonimo di abbandono ad un’“astrazione” universalistica o in quanto subordinazione dell’uomo nella sua universalità ad una “società concreta”.
Questo paradosso o questa contraddizione non datano da oggi. Stirner contrappone l’unico a quella “categoria” astratta che è il popolo, lo Stato ovvero l’umanità[43]; all’“infinità astratta” dell’umanità Kierkegaard a sua volta contrappone sia il singolo sia “le creazioni concrete e organiche”[44], cioè le società storicamente determinate.

3. Nietzsche e la dissoluzione nominalistica del concetto (e dell’individuo)

I risultati dell’hegeliano trattato epistemologico-politico sono paradossalmente confermati da un autore che pure si colloca sul versante opposto. Il riferimento è a Nietzsche, il quale esprime tutto il suo disprezzo per i diritti dell’uomo proclamati in nome dell’“esangue entità astratta “uomo””, questa “pallida finzione universale”[45]. Fin qui ci muoviamo sul solco di una tradizione già nota. Assente è però in questo caso l'ingenuità filosofica dei consueti critici del ciclo rivoluzionario francese sfociato nel socialismo. Quest'ultimo, ben lungi dall'essere sinonimo di anti-individualismo, ha invece il torto di scatenare un'“agitazione individualista” che mira a “rendere possibili molti individui”[46]. E il socialismo consegue tale risultato proprio per il fatto di tener fermo al concetto astratto e universale di uomo. Significativamente, nel contestare il movimento rivoluzionario e socialista, è Nietzsche a sviluppare una polemica antiindividualistica: quella di “individuo” non è in alcun modo una caratteristica che competa ad ogni essere umano; la civiltà presuppone “un bisogno di schiavitù” e “dove c’è schiavitù, gli individui non sono che pochi”[47]. La rivendicazione, propria del “socialismo”, dell’“uguaglianza della persona”[48] e dell’individuo perde di vista e mistifica la realtà:
“I più non sono nes­suna persona. Dovunque predominano le caratteristiche medie, da cui dipende che un tipo sopravviva, l’essere persona sarebbe uno spreco, un lusso; non avrebbe senso pretendere una “persona”. Si tratta di portatori, strumenti di trasmissione”[49].
Lucidamente consapevole dello stretto legame che unisce l’individualismo all’universalismo (la sussunzione sotto la categoria di uomo in quanto tale anche di quegli strumenti di produzione che sono gli schiavi), Nietzsche respinge con forza l’interpretazione in chiave individualistica del suo pensiero:
“La mia filosofia mira alla gerarchia (Rangordnung), non ad una morale individualistica. Il senso del gregge deve dominare nell’ambito del gregge, ma non straripare al di là di esso. I reggitori del gregge hanno bisogno di una valutazione profondamente diversa delle proprie azioni”.
Al pari della “morale collettivistica”, anche quella “individualistica” ha il torto di far valere parametri egualitari, rivendicando la “medesima libertà” per tutti[50].
Rispetto ai consueti critici del movimento rivoluzionario e socialista, Nietzsche rivela la sua netta superiorità anche su altri due punti essenziali. Il pensiero astratto e la carica eversiva che lo caratterizza non hanno fatto la loro apparizione a partire solo dal 1789. Già con l’ebraismo, la morale subisce un processo di autonomizzazione e snaturalizzazione; essa “non è più l’espressione delle condizioni di vita e di sviluppo di un popolo, non è più il suo più profondo istinto vitale, bensì è divenuta astratta, è divenuta l’opposto della vita”[51]; e, dunque, è in ultima analisi a partire dai sacerdoti ebraici che prende le mosse la rivolta servile.
Infine, la questione forse decisiva. A sortire l’effetto di arbitraria semplificazione e omologazione del reale non è solo il concetto di uomo universale, è il concetto in quanto tale. Già La nascita della tragedia, con riferimento alla disputa scolastica sugli universali e citando e sottoscrivendo l’opinione di Schopenhauer, dichiara che “i concetti sono gli universalia post rem”; “i concetti generali [sono] un’astrazione dalla realtà”, mentre il concreto è dato dal “particolare e individuale”[52]. Il confronto epistemologico-politico con la rivoluzione francese ha ora acquisito la consapevolezza che si tratta di andare ben al di là della critica dell’égalité e dei diritti dell'uomo. E’ in questione non un concetto determinato ma il concetto in sé, che ha sempre il torto di “trascurare ciò che vi è di individuale e di reale”, di “porre un segno di uguaglianza tra ciò che è disuguale”[53].
Quest’ultima dichiarazione può essere messa a confronto con la tesi della hegeliana Enciclopedia, secondo cui “solo se si fa violenza a Proteo, e cioè non ci si rivolge all’apparenza sensibile, questi è costretto a dire la verità”; sono l’“universale” ed i “generi sostanziali” ad esprimere l’intima natura ed essenza delle “cose” e a conferire “una determinazione affermativa alla negazione della singolarità”[54]. E’ proprio questa negazione che Nietzsche rimprovera ai concetti, colpevoli di esprimere, sul piano epistemologico, la medesima tendenza al livellamento espressa dall’idea di uguaglianza sul piano politico. Non a caso, Descartes, “il padre del razionalismo” è anche il “nonno della rivoluzione”[55]. Indipendentemente dal giudizio di valore, questo è anche il punto di vista di Hegel il quale, già nei suoi scritti giovanili, mette in connessione il filosofo francese con le “rivoluzioni religiose e politiche”[56].
Per Nietzsche è ormai chiaro. Fare i conti con la categoria di uomo in quanto tale (e con la rivoluzione) significa fare i conti in ultima analisi col pensiero concettuale e con la scienza (“la scienza e la democrazia fanno tutt’uno”)[57]. A questo punto, la lotta contro le astrazioni si configura con chiarezza e in modo esplicito come lotta contro la ragione:
“Abbiamo scatenato la rivolta contro la rivoluzione... Ci siamo emancipati da ogni atteggiamento reverenziale nei confronti della raison, dallo spettro del 18° se­colo. Osiamo di nuovo essere lirici, assurdi e infantili”[58].
Ma le origini di questa ragione sovversiva e livellatrice vanno cercate ancora più a ritroso. La “magia del concetto” domina la filosofia di Platone: cos’è il mondo delle idee se non una forma di venerazione e divinizzazione del concetto?[59] A voler essere rigorosi, bisogna anzi rendersi conto che la rivolta servile si manifesta già nelle “coltellate” plebee insite nel “sillogismo” socra­tico[60], ovvero in una dialettica che sconfigge le buone maniere e il pathos della distanza dell’aristocrazia e tutti unisce e omologa sul terreno di una presunta comunità della ragione. D’altro canto, sia Socrate (il primo dei “quattro grandi democratici”, assieme a Gesù, Lutero e Rousseau[61]) sia Platone rinviano in ultima analisi all’ebraismo, al mondo a partire dal quale hanno preso le mosse al tempo stesso l’astrazione e la rivoluzione.
Ora il “realismo” (da Tocqueville e Leo denunciato nella tradizione giacobino-socialista) affonda le sue radici nella “magia del concetto” da Nietzsche rimproverata a Platone, mentre la professione di fede nominalistica (“Mai rendere eguale l’ineguale”[62]) investe il concetto in quanto tale.
La dissoluzione nominalistica del concetto finisce con l'investire lo stesso soggetto. Pochi sono coloro cui compete la qualifica di individuo; ognuno di essi può a sua volta essere decostruito; non ha senso voler attribuire ad un sostrato unico ed immutabile nel tempo la grande molteplicità di azioni e comportamenti in cui si esprime una vita. Siamo paradossalmente rinviati alla tesi di Hegel secondo cui, a voler essere coerente, la critica del concetto e dell'astrazione sfocia inevitabilmente nella distruzione del sapere e della comunicazione. Anzi, questo risultato conosce ora un’ulteriore radicalizzazione: inizialmente contrapposto alle astrazioni e ai concetti astratti, il pathos dell’individuo sembra essersi rovesciato nel suo contrario.

4. Universalismo, “positività assoluta”e “empirismo assoluto” o “volgare”
Pur nel suo carattere esplicitamente reazionario, la critica nietzscheana delle “astrazioni” rivoluzionarie esprime al tempo stesso la consapevolezza del fatto che l’universalismo può assumere una configurazione aggressiva e diventare sinonimo di micidiale omologazione: è per questo che il filosofo impegnato a contestare due millenni di storia finisce col dispiegare una fascinosa carica demistificatrice[63]. L’universalismo è una terribile arma a doppio taglio: la consapevolezza di ciò è già presente in Hegel, anzi costituisce un aspetto essenziale del suo pensiero, che non a caso sviluppa la sua polemica su due fronti. Per un verso, prendendo di mira la pubblicistica controrivoluzionaria, il filosofo non si stanca di sottolineare che “il concetto è il concreto in quanto tale”[64], anzi è “il concreto e ciò che vi è di più ricco”[65]. Condannare in quanto astratte le categorie e i concetti generali significa abbandonare il terreno della ragione e della filosofia: “che l’universalità è in sé concreta è una delle proposizioni fondamentali della filosofia”[66]. Ma ecco che interviene una precisazione essenziale: “Il concreto è l’universale che si particolarizza e che in questo particolare, in questo farsi finito (Verendlichung), rimane tuttavia infinito in se stesso”[67]; ovvero “il concreto è l’universale che è determinato e dunque contiene in sé l’altro da sé”[68]. Anche su questo secondo punto Hegel insiste con forza: “concreto è solo il reale che contiene le differenze”[69]; “l’identità concreta ha in sé la differenza dei momenti”[70].
Quali sono i bersagli di questa nuova polemica o di questa nuova messa in guardia? Trasparente è il riferimento al processo di radicalizzazione sviluppatosi nel corso della rivoluzione francese. Contrariamente ad una diffusa rappresentazione, non è in primo luogo il giacobinismo ad essere preso di mira. Non si comprenderebbe allora il giudizio altamente positivo almeno in un’occasione espresso su Robespierre, protagonista di “facta universalmente ammirati”, capace cioè, come riconosce in particolare la filosofia dello spirito jenense, di fronteggiare vittoriosamente un terribile stato d’eccezione, salvando così la Francia e la rivoluzione[71]. Il vero bersaglio della polemica di Hegel è costituito da “concetti relativi alla libertà” caratterizzati da “vuotezza ed indeterminatezza”[72], da un pathos dell’universale che rifugge dal particolare. Potremmo dire che ad essere presa di mira è la carica meramente eversiva, e in questo senso anarchica, di una “volontà generale” che si definisce tale solo in contrapposizione ad ogni mediazione e da ogni concreta e articolata configurazione della realtà politica e sociale. In modo analogo, con riferimento alla prima rivoluzione inglese, le Lezioni sulla filosofia della storia condannano le correnti messianiche più esaltate, non già Cromwell, il quale, mettendole a tacere, dimostra che “sapeva cosa fosse governare”[73]. Il rimaner fermo all’universalità nella sua purezza e il rifuggire dalla determinatezza come da una contaminazione o caduta provocano una sorta di contrappasso: la fuga dal positivo finisce col rovesciarsi nell'“assoluta positività” (absolute Positivität) della ghigliottina e di una morte persino “priva di significato” (bedeutungsloser Tod)[74].
L’autentica universalità dev’essere capace si sussumere la particolarità non solo delle diverse cerchie sociali ma anche delle diverse identità nazionali. Emerge così l’ulteriore bersaglio polemico della seconda messa in guardia. E’ l’espansionismo della Francia post-termidoriana. A Berlino, dopo aver celebrato “la rivoluzione francese come evento della storia universale”, come una tappa fondamentale della storia della libertà intesa anche come “indipendenza della nazione, come individualità, di fronte alle altre”, le Lezioni sulla filosofia della storia tracciano questo significativo bilancio dell’azione storica di Napoleone:
“Con l'immensa forza del suo carattere egli si volse poi all'esterno, sottomise tutta l'Europa, e diffuse dappertutto le sue istituzioni liberali. Giammai furono vinte più grandi vittorie, giammai furono condotte campagne più geniali; ma giammai, anche l'impotenza della vittoria apparve in più chiara luce. [...] L'individualità e la coscienza dei popoli, religiosa e nazionale, rovesciarono finalmente questo colosso”[75].
Sul piano filosofico e epistemologico, la sconfitta di Robespierre (e soprattutto del sovversivismo inconcludente che agisce alle sue spalle) e quella di Napoleone possono essere descritte come due capitoli di un’unica vicenda: è la vicenda di un universale che non riesce a sussumere il particolare. La legge del contrappasso, che abbiamo visto nel primo caso, agisce con modalità diverse anche nel secondo. Gli eserciti francesi post-termidoriani giustificano la loro marcia espansionistica, che non si preoccupa di rispettare i confini statali e l’individualità delle nazioni, facendo appello a parole d’ordine universalistiche, atteggiandosi a rappresentanti e difensori esclusivi dei diritti dell’uomo, a protagonisti di un disegno planetario di diffusione dei lumi e di emancipazione. In realtà esprimono, o finiscono con l’esprimere, un “interesse particolare contro [un] interesse particolare”. Si sviluppa così una dialettica pericolosa: l’universalità finisce col sussumere un particolare, un particolare assai discutibile, qual è la “rapina di una proprietà” (e cioè, per quanto riguarda la Germania, la riva sinistra del Reno)[76]; e proprio questo particolare assai discutibile può ora fregiarsi della legittimazione e trasfigurazione ad esso fornito dall’universale.
La dialettica sopra descritta della Francia illuministica, rivoluzionaria e post-termidoriana è un capitolo fondamentale anche di storia della filosofia. Esso rinvia in particolare a Kant e Fichte. Nella sua smania di purezza, l’autocoscienza non riesce a sfuggire al contenuto empirico, che essa infine sussume nella sua immediatezza e trasfigura acriticamente: ecco allora l’idealismo trasformarsi in “empirismo volgare” (gemeiner Empirismus) ovvero in “empirismo assoluto”[77]. E’ un empirismo ben peggiore di quello contro cui Kant e Fichte prendono posizione. L’empirismo propriamente detto è una forma legittima di protesta contro un universale che non sa sussumere il particolare ovvero, per dirla con l’Enciclopedia, contro le “teorie astratte dell’intelletto, il quale non può per se stesso procedere dalle sue generalità (Allgemeinheiten) al particolarizzamento e alla determinazione”[78].
E, ancora una volta, la riflessione politica s’intreccia con quella epistemologica. Nel rifiutare la trascendenza teologica e quella sorta di trascendenza secolarizzata che è un dover essere destinato a rimaner per sempre un aldilà, l’empirismo contiene “l’importante principio della libertà”. Rifiutata è ogni forma di evasione: “quello che l’uomo vuole ammettere nel suo sapere, deve esso stesso vederlo, vi si deve esso stesso sapere presente”[79]. Epperò, nella misura in cui nega all’uomo la possibilità di procedere oltre la percezione, di elaborare categorie e concetti universali, da dottrina della libertà l’empirismo si trasforma in “dottrina della illibertà”. Diventano un dato intranscendibile sul piano teorico e pratico l’immediatezza sensibile e l’oggetto, e non solo l’oggetto naturale, ma in primo luogo l’oggettività storica e politica: ora dinanzi al reale nella sua immediatezza l’uomo può solo inchinarsi, senza potersi chiedere “se e in che misura esso è in sé razionale”[80]. Già in quegli anni, in polemica contro la rivoluzione francese, si va elaborando quello che più tardi Schelling definisce e celebra come il “vero empirismo” o come l'“autentico empirismo”. A partire dall’esperienza, esso afferma “l'esistenza di Dio così come di ogni altra personalità”[81], e l’afferma non come astratta essenza universale bensì come esistenza da riconoscere nella sua immediatezza. In modo analogo, il monarca va riconosciuto come “pura personalità”, non già come “figura astratta del "capo di Stato", la sola che negli ultimi tempi [ad opera del movimento costituzionale] si vuol lasciare ai re”[82].
Ma se non può essere fondata sull’empirismo, un’autentica dottrina della libertà non può neppure essere fondata sull’universalismo astratto e incapace di determinazione. E’ in tal modo che procede Fichte. Nel paragonare la sua filosofia (“il primo sistema della libertà”) con la rivoluzione francese, vede l’uno e l’altra accomunati dalla negazione dell’oggetto: “Come quella nazione dà all'uomo la libertà dalle catene esterne, così il mio sistema lo libera dai vincoli delle cose in sé, dalle influenze esterne, e lo pone, fin dal primo assioma, come ente autonomo”[83]. Secondo Hegel, è proprio questa negazione enfatica dell’oggetto in quanto tale a configurare il pericolo dell’“empirismo volgare” o “assoluto”. Nettamente separato dalla realtà empirica, il concetto, per evitare il suo “annientamento”, deve in qualche modo derivare il suo “contenuto” da questa medesima realtà empirica così sdegnosamente rifiutata. L’idealismo che, nella sua ritrosia verso il mondo esterno, assolutizza la soggettività e il dover essere, finisce non solo per assumere surrettiziamente un determinato contenuto empirico, ma anche per trasfigurarlo: “l’empirico, che è nel mondo come comune (gemein) realtà” viene così “giustificato” e innalzato ad una superiore dignità[84].
L’evoluzione soprattutto di Fichte che, fino ai Discorsi, aveva sostenuto entusiasticamente sia il sovversivismo radicale e anarchicheggiante della rivoluzione francese sia l’espansionismo post-termidoriano e napoleonico, era lì a evidenziare i gravi limiti e pericoli di un’universalismo capace di definirsi solo in contrapposizione alla determinatezza e al particolare.
Emerge così un nuovo fondamentale capitolo del grandioso trattato epistemologico-politico contenuto nell’opera di Hegel. Non siamo in presenza di un ripiegamento opportunistico o conservatore, come ritiene invece Lukács. Significherebbe dimidiare e rendere irriconoscibile o incomprensibile questo trattato voler espungere il capitolo da ultimo esaminato. Il disagio di Lukács rinvia alla tradizione culturale e politica alle sue spalle. La sacra famiglia accomuna in un giudizio benevolo il “terrorismo rivoluzionario” e l'espansionismo napoleonico[85] che, nel procedere ad una sorta di esportazione della rivoluzione, liquida manu militari gli istituti feudali che incontra sul suo cammino e ogni resistenza nazionale. Per Hegel, si tratta in entrambi i casi di un universalismo astratto e aggressivo.
In effetti, tracce di universalismo aggressivo possono ben essere riscontrate già in Marx che, come dimostra in particolare il giudizio positivo su Napoleone e l’insistente appello ad una sorta di democratica crociata internazionale contro la Russia zarista e autocratica, sembra avvertire fortemente il fascino dell’esportazione della rivoluzione. Da questo punto di vista è più vicino alla lezione hegeliana Lenin, ben più sensibile, anche per oggettive circostanze storiche, alla questione nazionale, e che condanna in modo inequivocabile l’espansionismo napoleonico, fino al punto di considerare come una giusta guerra di difesa e di liberazione nazionale la resistenza opposta dalla Prussia degli Hohenzollern[86]. Non a caso, il rivoluzionario russo ha letto e annotato le pagine già citate delle Lezioni sulla filosofia della storia che tracciano il bilancio della vicenda napoleonica[87]; e non a caso egli cita e sottoscrive la “formula magnifica” della Logica secondo cui l’universale dev’essere tale da abbracciare in sé “la ricchezza del particolare”[88]. Più tardi, il “socialismo reale” avvertirà il bisogno di distinguere dall’internazionalismo il cosmopolitismo (ignaro del senso della responsabilità nazionale) e così, inconsapevolmente, effettuerà una sorta di ritorno a Hegel. Dopo aver celebrato come una grande conquista storica l’elaborazione del concetto universale di uomo, la Filosofia del diritto (§ 209 A) aggiunge però che esso non deve sfociare nel “cosmopolitismo” e nell’indifferenza o contrapposizione rispetto alla “concreta vita statale”.

5. “Empirismo volgare”, “positivismo acritico” e critica dell’ideologia

Sulla scia di Hegel, anche Marx respinge l’empirismo ingenuo (e di segno conservatore) che condanna le astrazioni in nome di un concreto inteso come immediatezza. In realtà, ben lungi dall’essere sinonimo di immediatezza intuitivo-sensibile, “il concreto è concreto perché è sintesi di molte determinazioni ed unità, quindi del molteplice“[89]. Marx sottolinea con forza il valore che nella scienza hanno le “astrazioni”[90] e la “forza di astrazione” in quanto tale[91]; si tratta di distinguere le “false astrazioni”[92] da quelle corrette. D’altro canto, le astrazioni non sono un prodotto meramente mentale, “sono espressione della realtà”[93]. Ci può ben essere un’“astrazione reale” che prende corpo nel “processo di produzione sociale”[94]. C’è un esempio clamoroso (desunto dalla Sacra Famiglia): “l’astrazione da ogni umanità e persino dalla parvenza dell’umanità è praticamente compiuta nel proletariato sviluppato”[95]. D’altro canto, quando leggiamo che nella società capitalistica il proletario è costretto all’“esistenza astratta” di “un mero uomo-da-fatica” (Arbeitsmensch)[96] non possiamo non pensare al servo (di cui parla Chi pensa astrattamente?), privato della sua concreta dignità umana e fissato nell’“astratta determinazione” di un rango sociale collocato a infinita distanza da quello del padrone.
Persino il capolavoro della maturità presenta un fondamentale punto di contatto con la Fenomenologia. Questa prende le mosse dalla certezza sensibile di cui, in contrapposizione all’opinione corrente, vengono messe in rilievo l’estrema povertà e astrattezza: per attingere la concretezza bisogna procedere ben al di là dell’immediatezza, è necessario passare attraverso la “fatica del concetto”... Memorabile è l’attacco del Capitale: “La ricchezza delle società nelle quali predomina il modo di produzione capitalistico si presenta come un’“immensa raccolta di merci” e la merce singola si presenta come sua forma elementare”. Ma non è certo rimanendo fermi a questa certezza sensibile e a questa astrazione, risultato del “lavoro astratto”, che si può cogliere l’essenza della società capitalistica...
Hegel agisce in profondità anche nelle critiche a lui rivolte. Quando il giovane Marx lo condanna per il fatto che il suo idealismo finirebbe col rovesciarsi in un “positivismo falso” ovvero in un “positivismo acritico” che sussume surrettiziamente e senza vaglio critico quei contenuti empirici rispetto ai quali esso pretende di proclamare la propria incontaminata purezza[97], quando argomenta in tal modo è chiaro che il discepolo ritorce contro il maestro la lezione da lui appresa: si pensi alla condanna già vista della filosofia kant-fichtiana come una forma di gemeiner o absoluter Empirismus.
A ben guardare prende le mosse proprio di qui un tema centrale del pensiero di Marx, e cioè la critica dell’ideologia: l’idealismo enfatico si rovescia in un “assoluto empirismo etico e scientifico”[98]. A sottolinearlo è già Hegel, il quale denuncia lo “stravolgimento e truffa” insiti nella “legislazione pratica della ragion pura” kantiana. La vuota identità e tautologia della moralità che vuole solo se stessa non solo non riesce a negare l’oggetto ma finisce col conferire, surrettiziamente, “l’assolutezza che è nel principio” ad un contenuto empirico determinato, il quale vien così innalzato alla dignità di assoluto. La controparte della conclamata purezza della coscienza morale è l’assunzione di un contenuto empirico per vie traverse e tortuose, senza il controllo della ragione, con la grave conseguenza allora che “ogni determinatezza può essere innalzata a dovere”. In questo senso “la tautologia e l’unità analitica della ragion pratica è non solo qualcosa di superfluo, ma, nella piega che prende, anche qualcosa di falso e deve essere riconosciuto come il principio dell’immoralità (Unsittlichkeit)”[99].
Empirismo assoluto e ideologia insorgono nell’ambito della dialettica di astratto e concreto, di universale e particolare: un particolare vizioso assume la forma dell’universale astratto e così conosce un processo di trasfigurazione. Lo “stravolgimento”, la “truffa” e l’“immoralità” sorpresi da Hegel diventano poi la “mistificazione” bollata da Marx. Resta il fatto che la denuncia dell’ideologia eredita il pathos morale che già caratterizza la critica dell’empirismo volgare o assoluto.

6. Marx, Hegel e l’astrazione

Ma, accanto all’influenza appena notata, un’altra si fa sentire, contraddittoria con la prima. Con riferimento alla filosofia idealistica, il giovane Marx contrappone il “tedesco” in quanto “pensiero astratto” al “francese” in quanto “lingua della politica e dell'intuizione pensante”[100]: come non leggere qui la presenza di Feuerbach e, più in generale, della reazione empiristica in quegli anni sviluppatasi in Germania? L'astrattezza di una sfera politica indipendente dai rapporti economico-sociali (rimproverata a Hegel) è l'astrattezza dello Stato politico moderno, il quale riposa sul presupposto che i rapporti sociali “hanno soltanto un significato privato, nessun significato politico”[101]: nella sua forma più sviluppata, lo Stato borghese si limita “a chiudere gli occhi e a dichiarare che certe opposizioni reali non hanno carattere politico, che esse non gli danno noia”[102]. Fin qui, nonostante la polemica contro Hegel, da lui Marx sembra desumere, in modo geniale, l'impostazione epistemologica di fondo. L'astrazione non è solo un processo logico, ha una corposa realtà: “astratto” è da considerare lo Stato politico per il fatto di riposare sulla “separazione” (Trennung) o “astrazione” dalla “società civile”[103] ovvero sull'“astrazione dell'uomo politico”[104], cui hanno il torto di rimaner fermi Rousseau e Hegel.
A questo punto emerge un problema di fondo: il successivo sviluppo storico è chiamato a ridefinire la sfera politica, superando le astrazioni indeterminate e false su cui riposa la teoria e la realtà dello Stato borghese moderno, o, invece, è chiamato a riassorbire nella “concretezza” della società civile l’astrazione in quanto tale dello Stato politico e dell’uomo politico?
A contrassegnare la modernità non è solo l'astrazione dello Stato politico. Sulla scorta di Blackstone, il grande giurista inglese del Settecento, possiamo ricostruire il processo di progressiva astrazione che è a fondamento dell'ordinamento giuridico moderno. Lo jus talionis delle società primitive sembra caratterizzato da un'assoluta concretezza: all'occhio strappato alla vittima deve corrispondere l'occhio da strappare al criminale: membrum pro membro! Ma che ne è della concretezza e della concreta eguaglianza di questo scambio allorché la vittima, già per una qualsiasi ragione priva di un occhio, diviene totalmente cieca in seguito ad un’aggressione? Giustizia vorrebbe che a subire questa sorte sia anche il criminale. Dunque, ad essere presa in considerazione è ora la vista più che il singolo occhio[105]; e cioè, nel tentativo di tener fermo all’uguaglianza dello scambio nella sua concretezza, si è in realtà passati dal membro “concreto” alla funzione “astratta”. Ancora più radicale è ovviamente il processo di astrazione che conduce all'elaborazione di categorie generali come quelle di norma, reato e pena...
Qualcosa di analogo possiamo notare anche a proposito dell'economia. Certamente è meno concreto del baratto il ricorso alla moneta, suscettibile di tradursi in più merci (e valori d’uso) e ancora più astratta è l'odierna carta di credito, suscettibile di tradursi in questa o in quella moneta. D’altro canto, più astratto del lavoro artigianale, direttamente finalizzato alla produzione di valori d’uso, è il lavoro caratterizzante la moderna società industriale. Come per il diritto, anche per l’economia la produzione delle astrazioni è una caratteristica oggettiva dello sviluppo sociale e della regolamentazione di una società complessa. Di ciò è ovviamente consapevole Marx, che ci ha anche lasciato analisi starordinariamente fini di questo o quell’aspetto di tale dialettica. In particolare, i Grundrisse denunciano la tendenza all’idealizzazione di una mitica “pienezza originaria” a partire dalla fuga dalle “astrazioni” che dominerebbero la modernità[106].
D’altro canto, nella sua lotta per la regolamentazione legislativa dell’orario di lavoro, il movimento operaio si è dovuto scontrare con coloro che all’astratta norma giuridica contrapponevano la concretezza del contratto e dei rapporti inter-individuali. Almeno ai suoi inizi, la stessa introduzione dello Stato sociale ha dovuto fronteggiare le proteste e la resistenza di coloro che guardavano con sgomento al subentrare, nel soccorso ai poveri, dello Stato alla beneficenza individuale, ispirata da sentimenti ben più concreti e ben più calorosi dell'astratta e fredda norma giuridica generale.
Dunque, non solo la lezione di Hegel ma anche l’esperienza di lotta politica e sociale contribuiscono a tener distante Marx dall’ingenuo pathos di un concreto identificato con l’immediato e l’individuale. Epperò, abbiamo visto per un altro verso l’influenza feuerbachiana e della reazione empirista. Forse di qui bisogna prendere le mosse per comprendere il fatto che, sia pure attraverso oscillazioni e contraddizioni, faccia capolino l’attesa per l’estinzione dello Stato, più in generale l’attesa per il finale riassorbimento delle “astrazioni” dello Stato, del mercato ecc. nel “concreto” dei rapporti inter-individuali.

7. Astrattezza del citoyen e astrattezza del bourgeois

Abbiamo visto Marx criticare l’astrazione dello Stato politico moderno. Non è assente in Hegel la critica dell’indebita astrazione della sfera giuridico-politica dalle condizioni materiali di vita: rispetto al problema di procurarsi i “mezzi di sussistenza”, “il diritto in quanto tale” è solo un'“astrazione”[107]; la vita che l’affamato deve in qualche modo salvare, “ha un diritto contro il diritto astratto”[108]. In determinate circostanze, lo Stato stesso può costituire un'“astrazione” (Abstraktion), come, dato l'aspro “contrasto” (Gegensatz) tra patrizi e plebei, avviene nella Roma antica [109]. L'astrazione qui criticata è per l’appunto la mancata presa in considerazione dei rapporti economico-sociali, cioè la separazione dell'“uomo” soggetto del diritto e del cittadino dal membro della società civile, dal bourgeois. Per dirla con la Filosofia del diritto (§ 190), è al livello dei “bisogni” propri del membro della società civile, del bourgeois, che la rappresentazione di “uomo” acquista un carattere “concreto”. Se anche formalmente libero sul piano giuridico e cittadino al pari degli altri, colui che rischia la morte per inedia viene in realtà a subire una “totale mancanza di diritti” e a trovarsi quindi in una condizione simile a quella dello schiavo. A contestare all’affamato esposto al pericolo dell’inedia il “diritto assoluto” di procurarsi il pezzo di pane capace di procurargli la sopravvivenza può essere solo l’“intelletto astratto”[110]. Non è lecito sbarazzarsi del problema della miseria di massa e del mancato appagamento dei bisogni concreti di una larga fascia della popolazione, limitandosi a rinviare alla libertà e uguaglianza propria della sfera giuridico-politica ovvero all’oggettività delle leggi dell’economia e del mercato, e cioè all’“astratto dei traffici e dei commerci”[111]. Dunque, prima ancora che in Marx, già nello Hegel qui analizzato astratta è la libertà dell’uomo e del cittadino che prescinda dall’appagamento dei bisogni del bourgeois, cioè del membro della società civile.
Nel leggere e criticare il già citato § 190 della Filosofia del diritto, Marx incorre in un fraintendimento. Dato che solo in quanto bourgeois l'“uomo” diviene concreto, è evidente- commenta Il capitale- che “nella società borghese, il generale o il banchiere gioca un grande ruolo, mentre l'uomo in quanto tale gioca un ruolo piuttosto mediocre”[112]. In realtà, il bourgeois di cui qui si parla è il membro non della classe borghese ma della società: è una figura che certo può sussumere “il generale o il banchiere”, ma sussume anche e in primo luogo il proletario. Sottolineando il fatto che, per superare l’astrattezza e divenire concreto, il discorso sull'uomo e i diritti dell'uomo presuppone l'appagamento dei bisogni, Hegel intende richiamare l’attenzione su quelli che definisce esplicitamente i “diritti materiali”, sulla dimensione “positiva” oltre che “negativa” del diritto.
Ma ecco che in altre pagine si assiste ad un sensibile mutamento di prospettiva. Le Lezioni sulla filosofia della storia tracciano questo bilancio dell’avvento dell’Impero romano:
“Il dispotismo [...] introduce l’uguaglianza. Questa assume anche la caratteristica della libertà, ma solo di quella astratta, di quella del diritto privato [...] Perciò tutti, eccetto l’autocrate, sono solo sudditi, persone astratte, che stanno fra loro solo in rapporti giuridici” [113].
La categoria di astrazione svolge qui un ruolo centrale: “lo spirito del mondo romano è il dominio dell’astrazione”[114]; più volte Hegel richiama l'attenzione sulla “fredda astrazione quale principio romano”[115], sulla “astratta universalità del mondo romano”[116]. Anche in questo caso, “astratto” non ha un significato univocamente negativo: l'astratta “uguaglianza delle persone private” comporta anche l'emancipazione di “un gran numero di schiavi”[117]. Astratta è qui la libertà del bourgeois che, pur senza essere associata alla libertà del citoyen e alla sua partecipazione alla vita pubblica, costituisce tuttavia una conquista fondamentale (è un passo importante in direzione della realizzazione dell’uguaglianza giuridica). In conclusione, se astratta è la libertà dell’uomo e del cittadino privo dei mezzi di sussistenza, astratta è anche la libertà del bourgeois, impossibilitato a partecipare alla vita politica”.
E' solo nel primo dei due significati che la critica della libertà “astratta” ha fatto scuola nella tradizione ovvero nella vulgata marxista. Ciò comporta un grave inconveniente: l'astrazione viene letta solo in riferimento ad una dimensione della libertà, sicché astratto tende ad assumere una connotazione univocamente negativa, mentre il concreto finisce con l'identificarsi con l'intuitivo-sensibile ovvero col materiale. Hegel ci mette di fronte ad un modello più complesso e più ricco. Ogni dimensione della libertà può essere astratta dalle altre: e, ancora una volta, questa astrazione non è solo un processo logico ma anche un dato reale. Essa può persino essere il risultato più o meno obbligato di una situazione oggettiva; in determinate circostanze la coesistenza tra le diverse dimensioni della libertà può risultare problematica e persino impossibile, ma ciò non significa che si debba considerare astratta (in senso univocamente negativo) la dimensione da cui, ad esempio per l'insorgere di uno stato d'eccezione, si è costretti a fare astrazione.

8. Astratto/concreto, formale/sostanziale

Alla coppia concettuale astratto/concreto è chiaramente connessa quella formale/sostanziale. Anche quest’ultima coppia è ben presente in Hegel:
“La libertà ha in sé una doppia determinazione. L’una riguarda il contenuto della libertà, la sua oggettività, la cosa stessa. L’altra riguarda la forma della libertà, in cui il soggetto si sa attivo: perché l’esigenza della libertà è che il soggetto vi abbia conoscenza di sé, e vi assolva il proprio compito, essendo suo interesse che la cosa si realizzi”[118] .
Per quanto riguarda la prima determinazione, nella libertà “oggettiva o reale” rientrano “la libertà della proprietà e la libertà della persona: cessa con ciò ogni illibertà del vincolo feudale, decadono tutte le norme derivate da quel diritto, le decime, i canoni”; sempre in questo ambito sono inoltre da collocare “la libertà dei mestieri, cioè il fatto che sia concesso all’uomo di usare delle sue forze come vuole, e il libero accesso a tutte le cariche statali”. Dunque, la libertà “oggettiva o reale” implica il superamento, a livello politico e sociale, dei rapporti feudali o semifeudali; ma essa può anche sussumere “diritti materiali” che vanno o tendono ad andare al di là dell’ordinamento scaturito dalla rivoluzione francese: essenziale è, come abbiamo appena visto, la “libertà dei mestieri”, epperò “non si tratta solo del fatto che il cittadino possa esercitare un mestiere; egli deve anche ricavarne un guadagno”[119].
Analizziamo ora la seconda determinazione: “la libertà formale è l’elaborazione e la realizzazione delle leggi”[120]; essa cioè costituisce il momento del consenso soggettivo. La libertà formale dovrebbe essere il veicolo della libertà reale. Quando ciò si verifica, abbiamo il libero volere della libertà, e cioè l’adesione e il consenso soggettivo e consapevole agli istituti politico-sociali che realizzano la libertà oggettiva. Ma nel concreto di una determinata situazione storico-politica la libertà formale può entrare in collisione con quella reale. Non c’è armonia prestabilita tra queste due dimensioni pur entrambe essenziali. L’accidentalità di sentimenti, consuetudini e tradizioni può far sì che alla libertà reale venga a mancare il consenso; la libertà formale può negare quella reale e aggrapparsi a istituti che sono la negazione della libertà e della ragione, che sono al di qua della rivoluzione francese e dello sviluppo storico moderno.
Per il “formale” qui in discussione si possono far valere, e a maggior ragione, le considerazioni già sviluppate a proposito dell’astratto. Quella “formale” è una dimensione essenziale della libertà. Certo, può aver luogo un processo di indebita e unilaterale astrazione e separazione di una dimensione dall’altra. E, in questo caso, “formale” assume una connotazione riduttiva. Un esempio particolarmente clamoroso, dal punto di vista di Hegel, è la Polonia: le continue discussioni della dieta sono certamente un momento di libertà formale, che però viene utilizzata al fine di perpetuare lo strapotere dei baroni e la servitù della gleba. Un’analoga collisione, sia pure in forma più blanda, si verifica in Inghilterra. Qui “la libertà formale nella discussione di tutti gli affari di Stato, ha luogo in sommo grado”: lo dimostrano i dibattiti parlamentari, “la consuetudine delle pubbliche riunioni in tutte le classi, la libertà di stampa”. E’ qualcosa di affascinante. Sembravano esserci tutte le condizioni favorevoli per realizzare “i princípi francesi della libertà e dell’uguaglianza”. E tuttavia, per una serie di ragioni, ciò non si è verificato. L’antico regime è stato intaccato in misura solo molto parziale: “nel complesso, la costituzione inglese è rimasta la stessa sin dai tempi del dominio feudale, e si fonda quasi esclusivamente su vecchi privilegi”[121]. L’aristocrazia che ha strappato alla Corona la “libertà formale” se ne serve per impedire incisive riforme antifeudali, per ostacolare o bloccare il processo di realizzazione della “libertà oggettiva”, e cioè del “diritto razionale”[122].
Ma come la libertà formale può separarsi e subire un processo di astrazione dalla libertà reale, così anche questa può essere separata e astratta dalla libertà formale. Dispotiche riforme dall’alto possono intaccare l’antico regime e introdurre libertà della persona e libertà della proprietà (che viene cioè liberata dai vincoli feudali); ma a tale sviluppo della libertà reale non corrisponde, o vi corrisponde solo parzialmente e con ritardo, lo sviluppo della libertà formale. É questa la situazione della Germania, e in particolare della Prussia così come si è venuta configurando a partire dalle riforme dell’era Stein-Hardenberg. Grazie ad esse comincia a penetrare la libertà oggettiva (da esse data, secondo Engels, l’inizio della rivoluzione borghese in Prussia e in Germania)[123], ma non la libertà formale: Federico Guglielmo III non mantiene le sue promesse di rinnovamento costituzionale, anche se Hegel continua a sperare che la libertà formale finisca, prima o dopo, col mettersi alla pari con quella sostanziale.
In conclusione, la visione nichilistica della libertà “astratta” o “formale”, che ha prevalso nella tradizione o nella vulgata marxista, rappresenta un indubbio impoverimento rispetto alla più articolata hegeliana. Epperò quest’ultima ha essa stessa contribuito, con le sue debolezze, a stimolare tale esito. Torniamo all’esempio della Polonia. I rapporti politico-sociali qui vigenti vengono descritti come una situazione di sfasatura o di conflitto tra “libertà reale” (assente) e “libertà formale” (ampiamente sviluppata). Tale modello potrebbe essere applicato per descrivere gli USA precedenti l’abolizione della schiavitù ovvero il Sud Africa dell’apartheid e il Sud degli USA scaturito dalla guerra di Secessione e esso stesso a lungo caratterizzato dalla segregazione e discriminazione razziale.
Ma è del tutto soddisfacente questo modello? Chi sono i soggetti titolari della libertà formale? Nei paesi qui presi in considerazione vediamo in atto non la libertà formale in quanto tale, bensì una libertà formale inficiata da terribili clausole d’esclusione, che investono i servi della gleba, gli schiavi, i neri. Per tutti questi soggetti viene ad essere negata la stessa libertà formale. A risultati analoghi si giunge se, invece che quella dei servi della gleba, degli schiavi o dei neri costretti a subire un regime di white supremacy, analizziamo la condizione dei proletari nella società capitalistica. Secondo Marx, essi risultano sottoposti in fabbrica, nella sfera della produzione, ad un vero e proprio “dispotismo”[124] (ed è anche in questo senso che sono schiavi salariati). E di nuovo emerge il problema: dobbiamo parlare di sfasatura tra le due dimensioni della libertà o dobbiamo mettere in evidenza le persistenti clausole d’esclusione della stessa “libertà formale”, che dunque, per gli esclusi, diviene sinonimo di inganno e mistificazione? A proposito della Polonia Hegel fa questa terribile descrizione:
“La libertà polacca non era altro che la libertà dei baroni contro il monarca, libertà per cui la nazione era asservita ad assoluta servitù [...] Quando si parla di libertà, si deve sempre attentamente osservare se non siano in realtà interessi privati quelli di cui si tratta”[125].
E’ il conflitto che già conosciamo: in determinate circostanze la libertà sostanziale può essere più importante di quella formale, senza però che questa si riduca a pura nullità. Epperò, le situazioni sopra elencate possono essere descritte anche in un altro modo, pur sempre suggerito da Hegel. Le persistenti clausole d’esclusione stanno a dimostrare che siamo ancora al di qua del concetto di “uomo astratto, universale”, come risulta in modo particolarmente evidente dal trattamento inflitto ai neri, ma anche dalla riduzione a cosa cui sono sottoposti gli schiavi, i servi della gleba, gli stessi schiavi salariati.
Nel corso della sua storia il movimento socialista si è trovato a dover lottare contro l’esistente società borghese da due diversi punti di vista. Esaminiamo il primo prendendo le mosse da Lassalle il quale, con lo sguardo rivolto alla discriminazione censitaria dei diritti politici, critica in questi termini i liberali del suo tempo: “I diritti che il liberalismo vuole [...], non li vuole mai per l'individuo (in quanto tale), ma sempre per l'individuo che si trovi in una situazione particolare, che paghi certe tasse, sia fornito di capitale ecc.”[126]. Agli occhi del discepolo di Hegel, il limite di fondo del liberalismo è l'incapacità di comprendere e formulare il concetto universale di uomo e di individuo, è l'incapacità di innalzarsi alla figura dell'“uomo astratto, universale”, facendo astrazione non solo dalle determinazioni di censo, ma anche da quelle relative alla razza e al sesso. Ma mentre ancora è al di qua della costruzione della figura dell'“uomo astratto, universale”, la società borghese si rivela incapace di fornire ad essa concretezza a causa della radicale separazione, dell’arbitraria astrazione cui essa procede della sfera giuridico-politica dalla sfera dell’appagamento materiale dei bisogni. A tutto ciò, si deve aggiungere il conflitto che in determinate circostanze può insorgere tra libertà formale e sostanziale. La complessità oggettiva di questa situazione non è stata padroneggiata sul piano teorico: ed è qui che ha il suo luogo d’origine la scorciatoia rovinosa della liquidazione della libertà “formale” e “astratta” in quanto tale. Dopo aver citato il brano in cui Hegel denuncia nel dominio dei baroni e nell’“assoluta servitù” del popolo il reale contenuto della formale “libertà polacca”, Lenin sottolinea con favore l’attenzione dal filosofo prestata ai “rapporti di classe”[127]. L’osservazione è pertinente e calzante, ma tende ad assolutizzare un aspetto sia pur essenziale o decisivo e dunque a far coincidere il concreto e il sostanziale col materiale dei “rapporti di classe”. Il conflitto possibile tra libertà formale e sostanziale è dileguato perché è dileguato il primo dei due termini.La liquidazione della libertà “formale” e “astratta” ha pesato in modo catastrofico nella storia del “socialismo reale”, anche se ingenuamente ideologico si rivela il consueto approccio che assolutizza tale elemento, perdendo di vista lo stato d’eccezione permanente che ha contrassegnato la storia di quel regime politico-sociale. Resta il problema di un bilancio teorico. Nella tradizione e vulgata marxista i limiti insiti nella hegeliana coppia concettuale formale/sostanziale (la libertà formale viene definita indipendentemente dal soggetto che ne è titolare) si sono sommati all’ambiguità insita nella polemica marxiana contro l’astrattezza rimproverata a Hegel (accusato di aver tenuto artificiosamente separato il soggetto della società politica dal membro della società civile). Si è così verificato un pesante slittamento dalla critica delle clausole d’esclusione della libertà formale alla liquidazione della libertà formale in quanto tale. I due atteggiamenti sono tra loro contraddittori: la critica delle clausole d’esclusione (a danno ad esempio dei popoli coloniali o in atto nella sfera di produzione della stessa metropoli capitalistica) implica evidentemente il riconoscimento del valore della libertà formale. D’altro canto, una cosa è respingere l’assolutizzazione di questa dimensione mettendo in evidenza il possibile conflitto che può intervenire con altre dimensioni altrettanto essenziali (secondo il modello hegeliano), altra cosa, ben diversa, è cancellare uno dei termini del conflitto e quindi il conflitto stesso (con atteggiamento speculare rispetto alla tradizione liberale che identifica la libertà “negativa” con la libertà in quanto tale).


[1] Trattato teologico-politco, cap. XVIII.
[2] Due trattati sul governo, II, § 112.
[3] A tale proposito rinvio ad una mia monografia su Nietzsche in corso di pubblicazione presso Bollati Boringhieri.
[4] E. Burke, The Works. A New Edition, London 1826, vol. IX, p. 281; vol. V, pp. 76-7.
[5] Ivi, vol.V, pp. 104 e 79.
[6] J. Maistre, Oeuvres complètes, Lyon 1884, ristampa anastatica, Hildesheim-Zürich-New York 1984, t. II, pp. 337-9.
[7] E. Burke, The Works, cit., vol. V, pp. 76 e 79.
[8] Nella traduzione di Gentz, “the method of nature” di Burke diviene il “divino metodo della natura”(göttliche Methodik der Natur): cfr. E. Burke, Betrachtungen über die französische Revolution, a cura di F. Gentz (1793); tale tr. è stata ripubblicata, sulla base della II ed. (1794) a cura di L. Iser, e con una Einleitung di D. Henrich, Frankfurt a. M. 1967, p. 70; Haller è citato da Hegel (Rph., § 258 A, nota).
[9] J. Maistre, Oeuvres complètes, cit., t. I, pp. 74-5.
[10] I. Kant, Gesammelte Schriften, a cura dell’Accademia delle Scienze, Berlin-Leizig 1900 sgg., vol. VIII, p. 276.
[11] G. W. F. Hegel, Werke in zwanzig Bänden, a cura di E. Moldenhauer e K. M. Michel, Frankfurt a. M. 1969-1979, vol. XVI, p. 243.
[12] D. Losurdo, Metafisica, antimetafisica e storia, in F. Barone et alii, Metafisica. Il mondo nascosto, Roma-Bari 1997, pp. 141-165.
[13] Leviatano, Parte III, cap. XXXII.
[14] Trattato teologico-politco, cap. I.
[15] Due trattati sul governo, I, §§ 55 e 58.
[16] I. Kant, Gesammelte Schriften, cit., vol. VIII, pp. 405-6.
[17] Enc., § 246 Z (= Hegel, Werke in ..., cit., vol. IX, p. 17).
[18] Cfr. supra, cap. I; una lettura in chiave teologico-politica e forse più teologica che politica in M. Theunissen, Hegels Lehre vom absoluten Geist als theologisch-politischer Traktat, Berlin 1970.
[19] G. W. F. Hegel, Vorlesungen über die Philosophie der Weltgeschichte, a cura di G. Lasson, Leipzig 1919-20, p. 611.
[20] G.W. F. Hegel, Werke in..., cit., vol. VI, pp. 258-9; una vigorosa ripresa dell’approccio hegeliano in E. Rambaldi, Astratto/concreto, in R. Romano (a cura di), Enciclopedia, vol. I, Torino 1977, pp. 1011 sgg
[21] G. W. F. Hegel, Werke in..., cit., vol. XVIII, pp. 121-2.
[22] Cfr. D. Losurdo, Hegel e la libertà dei moderni, Roma 1992, pp. 76-83.
[23] G. W. F. Hegel, Werke in..., cit., vol. II, pp. 578-580.
[24] G. W. F. Hegel, Phänomenologie des Geistes, in ivi, vol. III, p. 36.
[25] G. W. F. Hegel, Vorlesungen über Rechtsphilosophie, a cura di K. H. Ilting, Stuttgart-Bad Cannstatt 1973-4, vol. IV, pp. 91 e 534 sgg.
[26] Enc., § 258 A.
[27] G. W. F. Hegel, Werke in..., cit., vol. XI, p. 535.
[28] Ivi,vol. II, p. 577.
[29] Rph. 209 A.
[30] A. Müller, Elemente der Staatskunst (1808-9) in P. Kluckhohn (a cura di) Deutsche Vergangenheit und deutscher Staat (Deutsche Literatur, Reihe Romantik, vol. X), Leipzig 1935, pp. 231-3.
[31] A. Müller, Versuch einer neuen Theorie des Geldes mit besonderer Rücksicht auf Grossbritannien (1816), Jena 1922, p. 110.
[32] A. de Tocqueville, Oeuvres complètes, a cura di J. P. Mayer, Paris 1951 sgg., vol. II, 1, pp. 194-5.
[33] Ivi, vol. VI, 1, pp. 52-3 (lettera a H. Reeve del 3 febbraio 1840).
[34] In O. Kraus, Aus Heinrich Leos geschichtlichen Monatsberichten und Briefen, in “Allgemeine Konservative Monatsschrift für das christliche Deutschland”, Leipzig, Juli-Dezember 1894, p. 1017 (lettera a Gerlach del 23 marzo 1861).
[35] G. W. F. Hegel, Werke in..., cit., vol. III, p. 92.
[36] S. Kierkegaard, Eine literarische Anzeige (1845), in Gesammelte Werke, tr. tedesca dal danese a cura di E. Hirsch e H. Gerdes, Gütersloh 1983, vol. XVII, p. 116; S. Kierkegaard, Die Schriften über sich selbst (1847-8), in Gesammelte Werke, cit., vol. XXXIII, pp. 117-8.
[37] G. W. F. Hegel,Phänomenologie des Geistes, cit., p. 92.
[38] Ivi, p. 82.
[39] Ivi, p. 84.
[40] A. de Tocqueville, Oeuvres complètes, cit., vol. VI, 1, pp. 52-3.
[41] J. L. Talmon, The Origins of Totalitarian Democracy (1952); tr. it. di M. L. Izzo Agnetti, Le origini della democrazia totalitaria, Bologna 1967, p. 11.
[42] L. Dumont, Homo aequalis. Genèse et épanouissement de l’idéologie économique, Paris 1977, p. 156.
[43] M. Stirner, Der Einzige und sein Eigentum (1844), Stuttgart 1981, pp. 231-5).
[44] S. Kierkegaard, Eine literarische Anzeige, cit., p. 115.
[45] Aurora, af. 105.
[46] F. Nietzsche, Sämtliche Werke. Kritische Studienausgabe, a cura di G. Colli e M. Montinari, Berlin/New York 1986, vol. XII, p. 503.
[47] La gaia scienza, af. 149.
[48] F. Nietzsche, Sämtliche Werke, cit., vol. XIII, p. 70.
[49] Ivi, vol. XII, p. 492.
[50] Ivi, p. 280.
[51] Anticristo, af. 25.
[52] F. Nietzsche, Sämtliche Werke, cit., vol. I, pp. 106-7.
[53] Ivi, pp. 879-880.
[54] Enc., § 246 Z .
[55] Al di là del bene e de male, af. 191.
[56] G. W. F. Hegel, Werke in..., cit., vol. II, p. 184.
[57] F. Nietzsche, Sämtliche Werke, cit., vol. XII, p. 347.
[58] Ivi, p. 514.
[59] Ivi, p. 112.
[60] Crepuscolo degli idoli, Il problema Socrate, af. 7.
[61] F. Nietzsche, Sämtliche Werke, cit., vol. XII, p. 348.
[62] Crepuscolo degli idoli, Scorribande di un inattuale, af. 48.
[63] Cfr. D. Losurdo, Nietzsche e la critica della modernità. Per una biografia politica, Roma 1997, pp. 43-73.
[64] G. W. F. Hegel, Werke in..., cit., vol. VIII, p. 312.
[65] Ivi, vol. VI, p. 295.
[66] Ivi, vol. XI, p. 452.
[67]Ivi, vol. XIX, p. 412.
[68] Ivi, vol. XVIII, p. 98.
[69] Ivi, p. 53.
[70] Ivi, vol. XI, p. 429.
[71] Cfr. D. Losurdo, Filosofia della storia contra morale? in “Rivista di storia della filosofia”, n. 2/97, pp. pp. 271-5.
[72] G. W. F. Hegel, Werke in..., cit., vol. I, p. 570.
[73] G. W. F. Hegel, Vorlesungen über die Philosophie der Weltgeschichte, cit., pp. 896-7.
[74] G. W. F. Hegel, Phänomenologie des Geistes, cit., p. 440.
[75] G. W. F. Hegel, Vorlesungen über die Philosophie der Weltgeschichte, cit., pp. 927 e 930-931.
[76] G. W. F. Hegel, Werke in..., cit., vol. I, p. 458.
[77] Ivi, vol. II, p. 403; ivi, vol. III, p. 184.
[78] Enc., § 37.
[79] Enc., § 38 A.
[80] Enc., § 38 Z.
[81] F. W. J. Schelling, Grundlegung der positiven Philosophie. Münchner Vorlesung WS 1832/33 und SS 1833, a cura di Horst Fuhrmans, Torino 1972, p. 271.
[82] In König Maximilian II von Bayern und Schelling, Briefwechsel, a cura di L. Trost e F. Leist, Stuttgart 1890, pp. 199-200.
[83] J. G. Fichte, Briefwechsel, a cura di H. Schulz (Leipzig 1930), ristampa anastatica, Hildesheim 1967, vol. I, p. 449.
[84] G. W. F. Hegel, Werke in..., cit., vol. II, pp. 297 e 289.
[85] K. Marx- F. Engels, Werke, Berlin 1955 sgg, vol. II, p. 130.
[86] D. Losurdo, Fichte, la resistenza antinapoleonica e la filosofia classica tedesca, in “Studi storici”, n. 1/2, 1983, pp. 208-216.
[87] V. I. Lenin, Quaderni filosofici, a cura di L. Colletti, Milano (II ed.) 1969, p. 319.
[88] Ivi, p. 89.
[89] K. Marx- F. Engels, Werke, cit., vol. XIII, p. 632.
[90] Ivi, vol. XX, p. 20.
[91] Ivi, vol. XXIII, p. 12.
[92] Ivi, vol. XX, p. 502.
[93] K. Marx, Grundrisse der Kritik der politischen Oekonomie, Berlin 1953, p. 25.
[94] K. Marx- F. Engels, Werke, cit.,vol. XIII, p. 18.
[95] Ivi, vol. II, p. 38.
[96] Ivi, Erg. Bd. I, p. 524.
[97] Ivi, pp. 573 e 568.
[98] G.W. F. Hegel,Werke in..., cit.,, vol. II, p. 297.
[99] Ivi, pp. 463-4.
[100] K. Marx- F. Engels, Werke, cit., vol. II, p. 40.
[101] Ivi, vol. I., p. 284.
[102] Ivi, vol. II, p. 101.
[103] Ivi vol. I, pp. 321-2.
[104] Ivi, p. 370.
[105] W. Blackstone, Commentaries on the Laws of England (facsimile della prima edizione del 1765-1769), con una intr. di Th. A. Green, Chicago & London 1979, vol. IV, p. 13.
[106] K. Marx, Grundrisse..., cit., pp. 80-2.
[107] G. W. F. Hegel, Vorlseungen über die Philosophie der Weltgeschichte, cit., p. 698.
[108] G. W. F. Hegel, Vorlesungen über Rechtsphilosophie, cit., vol. III, p. 400.
[109] Sullo Stato come “astrazione” e sul diritto “negativo”, “positivo” e “materiale”, di cui si parla in questo paragrafo, cfr. D. Losurdo, Hegel e la libertà dei moderni, cit., pp. 233-4 e 399-402.
[110] G. W. F. Hegel, Vorlesungen über Rechtsphilosophie, cit., vol. IV, pp. 341-2.
[111] Ivi, p. 626.
[112] K. Marx- F. Engels, Werke, cit., vol. XXIII, p. 59; ma è un motivo già presente nella Sacra famiglia: Ivi, vol. II, pp. 41-2.
[113] G. W. F. Hegel, Vorlesungen über die Philosophie der Weltgescichte, cit., pp. 716-8.
[114] G. W. F. Hegel, Werke in..., cit., vol. XIV, p. 123.
[115] Ivi, vol. XII, p. 374.
[116] Ivi, p. 339.
[117] G. W. F. Hegel, Vorlesungen über die Philosophie der Weltgeschichte, cit., p. 692.
[118] Ivi, p. 926.
[119] Ivi, p. 927.
[120] Ivi, p. 927.
[121] Ivi, p. 934.
[122] Enc., § 544 A.
[123] K. Marx- F. Engels, Werke, cit., vol. VII, p. 539.
[124] Ivi, vol. IV, p. 469.
[125] G. W. F. Hegel,Vorlesungen über die Philosophie der Weltgeschichte, cit., p. 902.
[126] In G. v. Uexküll, Ferdinand Lassalle in Selbstzeugnissen und Bilddokumenten, Hamburg 1974, p. 28.
[127] V. I. Lenin, Quaderni filosofici, cit., p. 318.